Testo e Foto di Fausto Moroni & Barbara Baldoni
Il display luminoso del piano voli in partenza dell’aeroporto di Roma Fiumicino segnala già “Ethiopian Airlines, volo 344, destinazione Arusha, gate 4”. Mi affretto a cercare il desk del check in, attendo il mio turno, imbarco i bagagli e con Bording Card in mano e zaino fotografico in spalla mi avvio al controllo passaporti. Lo supero senza suonare ancor prima del mio zaino e dal monitor posso vedere perfettamente radiografata, è quindi come se fosse un “vecchio negativo” di pellicola, tutta la mia attrezzatura fotografica. Mi fa un po’ effetto, sia per l’immagine ormai vintage che vedo nel monitor, ma anche perché è come se la vedesi svuotata, e allora penso: “speriamo di riempirla con delle buone immagini!” Le operazioni d’imbarco sono lente, come ormai da tempo, ma per la sicurezza si accetta volentieri di attendere qualche minuto in più. Il volo arriva da una capitale europea, farà scalo ad Addis Abeba, poi a Nairobi, quindi arriverà ad Arusha. Ad Addis Abeba la sosta prevista dura più di un’ora, arriviamo che è notte e ci fanno scendere. Ed è qui che ho il primo contatto con l’Africa, non con la terra e con l’aria d’Africa, perché attraverso passaggi chiusi arriviamo direttamente all’interno dell’aeroporto, ma con i primi colori dell’Africa sì, inconfondibili, nell’abbigliamento degli indigeni e nelle vetrine dei negozi. Il reimbarco è più veloce ed anche il volo, ma arriviamo a Nairobi che è ormai giorno. Alcuni passeggeri scendono e la sosta si prolunga più del previsto, così mi alzo e mi dirigo al portello ancora aperto. Fuori, oltre il grigio metallico e riflettente del manto aeroportuale posato dall’uomo, è già Natura, ovvero savana punteggiata di acacie, e l’aria che mi investe è calda, è africana, e la respiro a pieni polmoni come un astinente che ritrova la sua cura. Il mal d’Africa, apparentemente sopito da anni di assenze, riemerge violento con una tempesta di sensazioni che nascondo dietro le lenti scure dei miei occhiali da sole.
Torno al mio posto, l’aereo decolla di nuovo e dopo poco siamo ad Arusha, vecchia capitale diplomatica della Tanzania, dove ci attende il nostro autista/guida. Usciamo dall’aeroporto e l’Africa è li, davanti ai miei occhi. Ai bordi della strada, mentre mi allontano dal Kilimanjaro Airport, vedo un susseguirsi apparentemente caotico di baracche e capanne attorno alle quali si muovono con fare indaffarato donne vestite di colori con cesti in testa e uomini neri mezzi nudi. Queste immagini, come l’aria respirata all’aeroporto di Nairobi, ridestano in me vecchie emozioni che riaffiorano prepotenti. Sono finalmente in Africa, ne ho di nuovo la percezione inconfondibile e toccante, anche se ancora non completa, e gli occhiali sono ancora li a nascondere la mia emozione. La sosta ad Arusha è breve, con la nostra guida visitiamo il mercato, semplice e perfettamente africano, e compriamo una card per telefonare. La guida, più abile di me che non ho il cellulare, la inserisce perfettamente in quello di mia moglie, così non siamo più isolati! E allora riemerge dalla mia memoria il ricordo di quando, in un safari in Kenya, tornando dal Masai Mara verso Malindi, ci eravamo persi fra le innumerevoli piste all’interno dell’immenso Parco Tzawo. Cercando il gate di uscita arrivammo in quello che in passato forse era stato un lodge di lusso, ora abbandonato, decadente e inquietante. La lancetta del carburante intanto si avvicinava inesorabilmente allo zero e il sole, ormai basso sulla linea dell’orizzonte, annunciava un rapido e quanto mai vicino tramonto, a cui sarebbe seguito il buio più totale in assenza di luna. Ripartimmo imboccando la pista più battuta, senza però avere la certezza che fosse stata quella giusta. Ma è qui che l’Africa ti soccorre. Le emozioni si sovrappongono, paura, libertà, la voglia improvvisa di lanciare in aria i passaporti dal tetto aperto della vettura dimenticando tutto e Essere l’Africa … ma dopo poco vedemmo in lontananza, piccoli ma ben distinti, i primi pali di legno del precario servizio elettrico kenyota e, inesorabile, la civiltà. Intanto mia moglie sta già telefonando in Italia dal mercato di Arusha. Le distanze sono cancellate dalla vista e dalle parole, ma la sensazione di assenza sarà sempre viva e ineluttabile e l’Africa pronta a ridestarla quando meno te l’aspetti.
Il mattino successivo lasciamo Arusha. Appena fuori dalla città coltivazioni di caffè a perdita d’occhio e all’orizzonte il vulcano Meru, che, come un diamante capovolto, si incastona perfettamente alla base del cielo africano. La sua vista ci accompagnerà ancora per molto, siamo diretti alla Ngorongoro Conservation Area, che comprende, oltre a tutta l’area del vulcano, la pianura che a nord si unisce con il Parco del Serengeti e che nei mesi di febbraio/marzo ospita la grande migrazione degli gnu. Percorreremo quindi la pista sulla sua cresta senza scendere nel cratere e svalicheremo nella parte opposta. Ma ogni distanza percorsa in Africa ha il suo fascino, così prima di salire a Ngorongoro lo sguardo si perderà sulla distesa piatta e vivida del lago Manyara, dove so che leoni appollaiati sui rami degli alberi riposano prima della caccia notturna e fenicotteri rosa danzano coreografie nuziali prima dell’accoppiamento. Attraverseremo la foresta tropicale, dove scimmie felici saltellano da un ramo all’altro, e infine vedremo dall’alto la caldera del vulcano, dove in uno spazio apparentemente immenso, ma in realtà molto piccolo, è concentrata tutta, o quasi, la rappresentanza della fauna africana. Siamo immersi nell’Africa più autentica e spettacolare, o, se si vuole, di una certa filmografia. Ma sarà la vista dei primi villaggi masai a concedermi completamente la percezione fisica e totale di essere in Africa. Capanne di fango e sterco essiccato e uomini alti vestiti di rosso si perdono nell’orizzonte sconfinato che dalle pendici esterne di Ngorongoro arrivano fino alle immense piane di Serengeti. Con la macchina scenderemo, e tra un tornante e l’altro si apriranno dei panorami naturali e umani di struggente bellezza e profonda armonia e sarà qui, davanti a queste visioni, in cui la natura si fonde completamente con l’uomo che la abita in perfetta sintonia, come se fosse un tutt’uno, che finalmente getterò i miei occhiali da sole e libererò la mia emozione, e sarà come essere nudo dentro questo continente, ne sentirò profondamente l’appartenenza, mi proteggerà come un grembo materno, eppure la sensazione di libertà sarà senza confini, come gli orizzonti che avrò davanti, racchiusi solo da queste mie parole.
Arriveremo così al Ndutu Safari Lodge, un camp costituito da bungalows e una struttura principale in muratura che ospita reception e ristorante, perfettamente integrato nella natura circostante, un bosco di acacie rade che lascia intravedere il lago, in parte asciutto, che si estende davanti. In questa area si radunano, nei mesi di febbraio/marzo, circa un milione di gnu. Sono gli Gnu della Grande Migrazione. La zona infatti è ricca di erba verde cresciuta dopo la stagione delle brevi piogge. Quest’anno non sono state copiose, per la verità, ma gli gnu sono arrivati lo stesso e ora dominano la pianura. Vengono qui perché l’erba è verde e fresca, e perché l’ambiente è perfetto per mettere al mondo la nuova generazione di gnu. Nascono tutti quasi contemporaneamente nel giro di pochi giorni, in un’esplosione di vita che non ha eguali. Bramiti e gemiti si susseguono in un suono ancestrale e primitivo, e i predatori sono lì, in costante agguato, perché l’Africa ci ricorda in ogni istante che la vita e la morte sono inseparabili, dove c’è l’una inesorabilmente non può mancare l’altra. È il cerchio dell’esistenza! E allora poco più in là, dove è avvenuta una nuova nascita, va in scena l’atto, solo apparentemente cruento, di una scena di caccia e quindi e di morte.
Trascorreremo qui i nostri giorni di safari in Africa, in queste distese sconfinate e verdi, popolate da gnu e predatori in un equilibrio perfetto che solo la Natura sa creare e perpetuare purché resti inviolato dall’uomo. Di notte, per orizzonte avremo solo stelle basse oppure niente (cit. Ivano Fossati da la pianta del te), di giorno, mandrie di gnu a perdita d’occhio e predatori isolati e affamati, perché nonostante l’abbondanza di cibo, non tutte le battute di caccia vanno a buon fine. Ci sposteremo poi nel Serengeti, che è la naturale prosecuzione della Ngorongoro Conservation Area e quindi passando per le gole di Olduvai, scenderemo all’interno del cratere di Ngorongoro, facendo un giro quasi ad anello come per abbracciare l’Africa intera. Dimenticheremo finalmente l’ultimo brand tecnologico alla moda, orologi, impegni e progetti, il tempo sarà scandito solo da albe e tramonti e la Natura sarà l’unica e vera protagonista. Ma in questa parte d’Africa l’ombra dell’uomo è sempre presente, a volte si materializza in figure slanciate e rosse che si perdono nelle pianure sconfinate, a volte in villaggi lontani da tutto, apparentemente anche dal tempo! Ma proprio qui, dove il tempo sembra essersi fermato, in realtà c’è la prova inconfutabile dell’evoluzione della nostra specie e quindi del suo inesorabile fluire. Nelle gole di Olduvai ci siamo evoluti, a Laetoli sono ancora visibili le impronte di una mamma e un bambino che corrono, probabilmente fuggono da un eruzione vulcanica, e scappando hanno ormai per sempre “fissato” nella pietra il senso del movimento nello spazio, e quindi anche nel tempo!
Ed è proprio in questo che affonda il Mal d’Africa, in questo connubio perfetto tra natura e uomo, tra tempo e spazio, tra vita e morte, che solo qui, inviolati, si fondono in assoluta armonia, come se ogni Cosa e Essere fossero meravigliosamente parte del Tutto.