Le acque del fiume più
lungo del Kenya raccontano l'Africa. Uomo e Natura convivono in perfetta
simbiosi lungo le sue sponde in un ambiente naturale incontaminato e ancora
fuori dalle grandi rotte del turismo di massa. Ma quanto durerà? Il governo del
Kenya sta già deforestando e trasferendo villaggi per introdurre coltivazioni
intensive a scapito di uomini e natura.
Un mamba nero si aggira incuriosito intorno al nostro fuoristrada! Non sono nella savana, ma nel patio della hall rigorosamente all’aperto del villaggio turistico dove ho trascorso la notte, quando un sinuoso serpente nero, strisciando fra le due ruote posteriori della Land Cruiser, tenta di accomodarsi nel bagagliaio dove sto riponendo i miei sacchi da viaggio. Il safari non è ancora iniziato, ma ecco il primo incontro con la natura africana! Nonostante tutto sembri pulito, quasi asettico, i prati siano curati e in una enorme aiuola siepi di bouganvillea fiorite disegnino una perfetta stella multicolore, mai ci si deve dimenticare di essere in terra d’Africa. In Africa le apparenze non contano, in Africa tutto è selvaggio, pericoloso e imprevedibile, dovunque ci si trovi. Chiamato da un ragazzo della reception, accorre subito un ascari che, con un bastone, abilmente impedisce al serpente di nascondersi fra le mie borse, poi con una piccola pietra, nonostante la mia disapprovazione, lo uccide dopo aver ripetuto più volte la parola “dangerous”. Il caso vuole che il serpente muoia proprio vicino allo zaino della mia attrezzatura fotografica, al quale si era avvicinato sperando di trovare lì un utile riparo. Forse era un piccolo di mamba nero o forse una innocua biscia che vive sul makuti, il caratteristico tetto delle capanne e di gran parte delle strutture turistiche in Kenya. Non lo saprò mai, nella concitata e rapida lotta instaurata con l’ascari non sono riuscito a riconoscerlo ed ora giace esangue a terra con la testa fracassata.
Lascio così Malindi e in pochi minuti sono già immerso, nonostante la strada asfaltata, nell’Africa più selvaggia. Da entrambe le parti boscaglia e savana, e se vedessi ora sbucare fuori dal bush qualche stanco e annoiato leone, non mi stupirei affatto. Mentre ho in mente questi pensieri tre babbuini mi obbligano ad una sosta forzata, stanno attraversano la strada, sono enormi, e il maschio dominante ha un inconfondibile portamento leonino. Il gruppo che li segue è numerosissimo e dalla bocca di un esemplare adulto penzola una piccola lepre appena cacciata. Il safari è veramente iniziato, non ho ormai più alcun dubbio.
A Garsen, una piccola cittadina di pochi abitanti e una caserma, prendo a bordo un militare armato di kalashnikov che mi accompagnerà fino al villaggio di Kipini. La mia guida mi ha detto che questo tratto di strada è pericoloso a causa degli shifta (banditi) che sconfinano dalla Somalia in bande armate ed è necessario, per sicurezza, essere scortati. Mentre il giovanissimo militare sale in macchina mi chiedo, nel caso di un malaugurato assalto, se sia meglio rischiare uno scontro a fuoco o subire semplicemente una rapina senza opporre alcuna resistenza, nella speranza che i banditi si limitino solo a spogliarmi di tutti i miei averi, ma in Africa, spesso, bisogna affidarsi al caso e confidare nella buona sorte.
Arrivo a Kipini senza alcun inconveniente e dopo altri trenta chilometri di strada sterrata, e senza scorta, giungo nella Riserva che comprende la regione della foce del fiume più lungo del Kenya, una zona naturale incontaminata e selvaggia, anche se ho ormai compreso che questa parola si addice ad ogni luogo d’Africa, anche il meno sospetto.
La meta di questo safari è comunque ancora fuori dalle grandi rotte del turismo di massa e ciò sarà ancor più evidente quando, risalendo per un certo tratto il fiume, entrerò in contatto con gli abitanti dei villaggi che si susseguono lungo le sue rive. Sono i Pokomo e gli Oruma, agricoltori di etnia bantu, i primi, allevatori tradizionalmente di zebù dalle lunghe corna, i secondi. Gli Oruma, di etnia galla, si dedicano oggi anche all’agricoltura, questa loro attività, tuttavia, viene considerata come una “concessione necessaria ai tempi”. Oggi allevano soprattutto vitelli e mucche, dal cui latte dipende la loro sussistenza. I Pokomo, nonostante siano agricoltori, non possiedono terre e coltivano lungo le rive del fiume soprattutto mais, riso e tabacco, non mancano però anche piantagioni di banane.
Mentre mi avvicino di nuovo alla costa la vegetazione ai lati della pista cambia. La savana e la boscaglia vengono sostituite da foreste di palme dom, la cui tipica ramificazione dicotomica termina con i caratteristici ciuffi di foglie e l’aria comincia ad essere di nuovo carica di umidità. Compaiono anche le punte dei tetti in makuti dei bungalows dove alloggerò, sono pochissimi e tutti godono di una vista panoramica sulla foce del fiume. Li raggiungo dopo una breve ma difficile salita su una pista sabbiosa, la fitta vegetazione nasconde infatti delle splendide dune costiere. L’incontro dell’acqua dolce con quella del mare è sempre, e ovunque, affascinante, due correnti opposte che si accarezzano fino a confondersi e unirsi, ma qui tutto è magicamente più maestoso: durante la bassa marea il fiume sembra prendere il sopravvento sul mare, poi, con l’arrivo dell’alta marea, l’oceano riprende con potenza ciò che gli appartiene. Il gioco è infinito e si ripete costantemente due volte al giorno. È una lotta senza vincitori ne vinti, come si addice ai migliori eventi naturali su cui l’uomo non ha ancora messo mano.
Ma il Tana River nasce molto lontano da qui, ben 710 chilometri più a nord, nel cuore montuoso del Kenya. Dalla catena delle Aberdare-Nyandarua e dal monte Kenya numerosi torrenti convogliano le loro acque in un unico grande fiume, che, nel suo tratto iniziale sembra dirigersi verso Nairobi. Poi invece piega verso nord-est quasi come per tornare alla sua sorgente. Ma è sull’Oceano Indiano che dovrà riversare le sue acque, quindi, con un’ampia “virgola” riprende la direzione sud. Il suo corso divide in due il Kenya centro-meridionale e attraversa diverse Riserve Naturali, poco note perché fuori dai soliti circuiti turistici, ma non meno affascinanti, sia dal punto di vista paesaggistico che faunistico, rispetto alle classiche mete dei safari “all inclusive” effettuabili in Kenya, come possono essere la Riserva Nazionale Masai Mara, il Parco Nazionale Amboseli o il più vicino alla costa Parco Nazionale Tzavo. La prima area protetta che il Tana River incontra, e attraversa, è la Riserva Naturale di Mwea. Molto piccola, con una superficie di appena 68 Kmq, si trova a 1000 m di altitudine ed è caratterizzata da savana e foresta e rappresenta l’habitat ideale per elefanti, bufali, ippopotami e coccodrilli. È poco visitata e, considerata la poca distanza da Nairobi e Nyeri, non offre infrastrutture logistiche. Più avanti il fiume incontra una serie di vaste aree naturalistiche protette, segnando il confine meridionale del Parco Nazionale Meru, della Riserva Nazionale Bisanadi e Rahole e quello settentrionale della Riserva Nazionale Nord Kitui e Kora.
Il Parco Nazionale Meru, con i suoi 870 kmq di superficie, è famoso perché è qui che Joi Adamson ridiede la libertà alla leonessa Elsa e seppellì la meno famosa ghepardessa di nome Pippah. Il parco è popolato da zebre di Grevy (dalle strisce più sottili) e da giraffe reticolate e poi da gazzelle, gherenuk, facoceri, elefanti e bufali. Non mancano, ovviamente, i predatori: leoni, ghepardi, leopardi con lo strascico di sciacalli e iene al loro seguito. È presente anche una ricca fauna avicola, caratterizzata da ben più di 270 specie. Nel parco sono presenti strutture ricettive ed è possibile effettuare entusiasmanti safari senza correre il rischio di incontrare più jeep che animali, in un ambiente di savana collinare cosparsa di palme dom che si trasforma in foresta rivierasca lungo i corsi dei numerosi fiumi che l’attraversano, molti dei quali sono affluenti proprio nel Tana River. La Riserva Nazionale Bisanadi, con una superficie di 600 kmq, rappresenta la naturale prosecuzione del Parco Nazionale Meru ed ha la funzione “ambientalistica” di accogliere elefanti e bufali che vi sconfinano durante la stagione delle piogge. La Riserva Nazionale Nord Kitui, poco più estesa della precedente, 745 kmq, non è molto diversa dal Parco Nazionale Meru, ma è ancora meno frequentata dai turisti, essendo sprovvista di strutture logistiche. Tuttavia è possibile effettuarvi dei safari anche di più giorni affidandosi ad agenzie locali in grado di allestire campi tendati mobili. Si avrà così la sensazione di rivivere i safari dei primi viaggiatori dell’800. La Riserva Nazionale Kora, ben 1787 kmq di savana piatta arborea e punteggiata da palme dom, invece, è chiusa al turismo ed è nota perché è qui che George Adamson fu ucciso all’età di 83 anni mentre ancora lavorava alla conservazione della natura in Kenya, esattamente a dieci anni di distanza dall’uccisione della moglie Joi, avvenuta a Shaba nel 1979. Nella riserva vivono oggi, anche grazie alla sua opera, molti rinoceronti neri, elefanti, leoni, leopardi, ghepardi e una grande varietà di antilopi. Le rive e le acque del tratto di Tana River che qui scorre sono popolate da ippopotami e coccodrilli e da una grande varietà di altri anfibi e rettili, così come accade anche lungo il corso del fiume che attraversa la Riserva Nazionale Rahole, 1270 kmq di savana bassa, arida e leggermente arbustiva, che però ospita oggi solo pochi mammiferi, decimati da un bracconaggio apparentemente incontrollabile. Vi arriva, inconsapevole del rischio, solo qualche raro elefante durante la stagione delle piogge.
Oltrepassata questa ampia zona di aree naturalistiche protette, ma evidentemente non ancora immuni dal bracconaggio, che rappresenta in Kenya un problema naturalistico non indifferente, il Tana River deve percorrere ancora molti chilometri prima di sfiorare un’altra Riserva naturale, quella di Arawale, 533 kmq di savana semi-arida che si estende a 5 chilometri dal fiume. È stata istituita per proteggere il raro damalisco di Hunter, presente ormai solo qui. Nella riserva non ci sono piste e per visitarla è necessario un permesso speciale ottenibile presso il direttore della riserva a Garissa.
Le acque del fiume, intanto, procedono lente verso l’Oceano Indiano, dove finalmente sfociano poco a sud dell’isola di Lamu, in un ampio delta, dopo essere state testimoni, e protagoniste silenziose, di spettacoli naturali di rara bellezza.
Il lodge in cui soggiornerò, situato all’interno di quello che ormai è considerato uno dei tanti santuari della natura kenioti, è spartano, ma confortevole se considero che in questo angolo di terra sembra di essere fuori dal mondo. Avrò anche piacevolmente modo di constatare che la cucina è allo stesso livello dei migliori ristoranti di Malindi. Ma certo non sono arrivato qui per degustare piatti particolari o per stabilire la categoria del lodge, sono qui per avere un “contatto” con la terra, con l’acqua e con la gente d’Africa, che ancora una volta, sono sicuro, non mancheranno di stupirmi.
Occupo il pomeriggio passeggiando lungo la foce del fiume fin dove la vegetazione mi consente di arrivare, oltre, dove finisce la spiaggia sabbiosa, inizia la tipica vegetazione fluviale, impenetrabile per noi occidentali a meno di non trovare qualche sentiero già tracciato. Tutto sembra tranquillo, ma so che là regna il varano, il coccodrillo, l’ippopotamo, l’aquila pescatrice e innumerevoli e variopinti uccelli acquatici e non, che danno vita ad un ecosistema naturale affascinante e misterioso. Avrò modo di ammirarlo il giorno successivo, quando con la “Queen of Africa” risalirò il fiume. Per il momento ascolto il lento scorrere dell’acqua, illuminata da una luce irreale e fantastica, quella luce che si accende solo dopo un breve temporale africano, quando il sole filtra di nuovo fra le immense nuvole che lentamente si diradano.
Improvvisamente, dopo un rapido quanto suggestivo tramonto, scende la sera. È già buio quando raggiungo il lodge dove mi attende una gradita sorpresa. Una troup di Geo&Geo della Rai sta girando un documentario sull’“acqua” in Africa e, insieme a Sveva Sagramola, c’è Giulio Cederna dell’Amref. Durante la cena ci conosciamo e parliamo dell’Africa, dei suoi problemi, dell’attività dell’Amref, di come comunicare le bellezze, i contrasti, le contraddizioni di questo continente e di che cosa sia giusto fare affinché le popolazioni di questa terra si evolvano secondo i propri ritmi e le proprie culture e non secondo schemi e idee occidentali. Ed è questa, forse, la vera sfida per chi opera oggi nei paesi africani. Vado a letto con questi pensieri, ma fatico un po’ ad addormentarmi, consapevole delle difficoltà che queste terre, e gli uomini che le abitano, andranno incontro nel momento in cui arriveranno anche qui le parole “sviluppo” e “progresso”. Come se sviluppo e progresso debbano essere fatalmente necessari, ma soprattutto assimilati alla nostra cultura! Finalmente mi addormento, l’indomani mattina mi imbarcherò sulla Queen of Africa per risalire il fiume.
La foce è larga e navigo costeggiando la sponda sinistra, mentre la corrente scivola leggera sotto la barca. Avvistare gli animali fra la vegetazione che allunga i suoi rami sulla superficie del fiume non è facile e senza l’aiuto delle guide probabilmente riuscirei a vedere molto poco, ma il loro occhio allenato scorge varani, coccodrilli e innumerevoli varietà di uccelli acquatici, e me li indicano. Tutti questi animali sono però molto schivi, evidentemente non abituati alla vista dell’uomo e, soprattutto, al rumore del motore della barca. Subito, infatti, scappano. Chi si immerge nelle acque del fiume, chi si dilegua nel fitto della foresta, chi vola verso luoghi più tranquilli, l’unica a restare impassibile, evidentemente non disturbata, e tanto meno impaurita dal nostro passaggio, è solo e proprio lei, l’aquila pescatrice. Posata sul suo ramo, con ben in evidenza le sue inconfondibili piume bianche su collo e petto, è la regina incontrastata del fiume e attende, paziente, il momento propizio per planare maestosa sopra le sue acque a cercare una minima increspatura della superficie, sotto la quale, ignara del pericolo, nuota la sua potenziale preda. Ma certo l’aquila non è l’unica attrattiva, anche se udire il suo urlo echeggiare fra le sponde del fiume merita da solo un safari al Tana River. Altri animali popolano questo habitat e, per quanto timidi e poco propensi a farsi ammirare e fotografare, lasceranno ugualmente nella memoria il flash di una veloce occhiata e il suono selvaggio dei loro rapidi movimenti.
Ogni tanto una canoa, con sopra un indigeno, vira al nostro passaggio e si nasconde nelle piccole insenature di cui sono ricchissime le sponde del fiume, dimostrandomi che la zona è abitata. Perché dal fiume i villaggi non sono visibili. Sono più interni, situati in zone protette dalle periodiche e improvvise piene. Gli africani conoscono la natura e, consapevoli che da essa traggono la loro sussistenza, la rispettano e sanno perfettamente come vivere e muoversi al suo interno: è come se gli indigeni fossero un’entità unica e inscindibile dal loro habitat. E il viaggiatore questo magico senso di unità lo avverte forte, tanto forte quanto più è consapevole del distacco che egli stesso ha operato nei confronti della natura. Ma nonostante tutto la vista di quella perfetta simbiosi che gli si para davanti senza filtri, se non quelli della sua stessa cultura, inesorabilmente risveglia e riattiva quei sensi assopiti ma ancora in grado, fortunatamente, di percepire i ritmi più profondi della natura. Ed è emozionante.
Alcuni di questi uomini e donne si lasciano osservare, altri, più timidi, si nascondono fra la vegetazione, ma il contatto, in un modo o in un altro, si instaura. Scendo dalla barca e vado a visitare un villaggio. Durante il percorso, lungo uno stretto sentiero che si apre improvvisamente in piccole radure, incontro una donna con un bambino intenta a preparare del cibo, oltre, dopo qualche decina di metri, ecco le prime capanne, semplici ma dignitose. In ogni villaggio ce ne sono dalle dieci alle cinquanta. I bambini, come accade sempre in Africa, sono numerosissimi e si nascondono dietro ogni possibile riparo, che sia un albero, un cespuglio, ma la loro curiosità innata li spinge poi a mettersi allo scoperto. Le donne stanno sedute, indaffarate nei loro lavori, e gli uomini, quelli presenti, mi accompagnano per il villaggio. Stringo la mano ad un anziano, molto probabilmente il capo villaggio, non senza emozione, e con profondo e sentito rispetto. Camminando mi si parano davanti, come in un documentario antropologico in bianco e nero, scene di vita quotidiana d’altri tempi, ma le vedo a colori, anzi ci sono dentro. Una bambina, accompagnata dal suo giovane padre, mi segue fino al fiume perché non ha mai visto una barca a motore. Altri due bambini, con tre adulti, si imbarcano con me per farsi accompagnare in un altro villaggio. La profondità dei loro occhi mi colpisce, mi rispecchio nelle loro gemme nere e lucide, delle quali, a volte, non reggo lo sguardo.
Il ritorno verso l’oceano è più veloce, la marea si alza, il fiume sembra gonfio e le onde ne increspano la superficie. Il cielo sopra il mare assume toni inquietanti, nuvole nere si addensano annunciando forti temporali, due avvoltoi si stagliano nel controluce di questa Africa carica di presagi indefiniti. Penso al privilegio che mi è concesso di essere qui, lo comunico ai miei compagni di viaggio che in silenzio annuiscono. Mi volto e guardo di nuovo il fiume. Le sue acque marroni contrastano con il verde violento della vegetazione delle sue sponde, illuminate dalla luce radente del tardo pomeriggio, e con il blu profondo del cielo, solcato, da questa parte, da nuvole bianche e maestose. La visione a trecentosessanta gradi è forte. Respiro profondamente come se volessi assorbire tutto questo non solo con lo sguardo ma anche con il corpo. La mia mente torna al villaggio e lascio scivolare una mano come per accarezzare la superficie dell’acqua, quella stessa acqua che ha attraversato savane e foreste e che è stata condivisa da uomini e animali. Con tutti i sensi sollecitati entro in contatto con la Natura più Selvaggia, e nell’attimo stesso in cui il mio palmo si bagna … sento … che è l’Africa ad accarezzarmi.